Con la recente ordinanza n. 29767/2020, la Corte di Cassazione è tornata nuovamente a precisare la nozione di mobbing ed il relativo onere probatorio gravante sul lavoratore, che intenda reclamare il risarcimento del danno.
Per la Suprema Corte, il mobbing deve ricondursi a quell’ampia categoria di situazioni che, seppur atipiche, sono potenzialmente dannose. Si tratta di un complesso fenomeno “consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.
Elencando i connotati tipici che devono rinvenirsi per la configurazione di una condotta mobbizzante, vengono quindi in evidenza:
Tutti questi elementi devono essere rigorosamente dimostrati dal lavoratore ai sensi dell’art. 2697, cod. civ. Secondo l’opinione della Corte, “l’elemento qualificante del mobbing, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica”. Pertanto – aggiunge la Corte – “ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.