La Corte d’appello di Napoli con la sentenza 2659/20 ha ripreso alcune tematiche interessanti in relazione alla responsabilità professionale del medico dalle quali si possono desumere interessanti spunti anche in merito in merito alle questioni connesse al Covid-19
La Corte di Cassazione va ripetendo da anni che la diligenza esigibile dal medico deve essere “superiore alla media”, dovendola paragonare a quella del professionista accorto, scrupoloso, zelante e con adeguata e competente preparazione professionale. Questa speciale diligenza esigibile dal medico implica il rispetto (e quindi l’effettiva e preventiva conoscenza) di tutte le regole, prassi e tecniche che, nel loro insieme, rappresentano la migliore conoscenza medica a seconda dei traguardi raggiunti e divulgati dalla scienza in un preciso momento storico.
Tutto ciò fa sì che sul medico ricada l’obbligo non solo di svolgere la corretta esecuzione della prestazione sanitaria in senso stretto, ma anche di apprestare tutte quelle attività correlate ed accessorie alla prestazione principale (come, ad esempio, l’obbligo di garantire un adeguato controllo della fase successiva all’intervento praticato).
D’altra parte però l’ art. 2236 c.c. di fatto, impone una limitazione della responsabilità del professionista alle sole ipotesi di dolo e colpa grave, tutte le volte in cui la prestazione implichi la risoluzione di situazioni di particolare complessità, o perché non ancora sperimentate e studiate a sufficienza, o perché ancora non dibattute riguardo ai metodi terapeutici da seguire.
Calati questi principi giuridici nell’attuale contesto pandemico, si può legittimamente affermare che, sebbene orientata in modo restrittivo, la giurisprudenza non potrà non tener conto delle limitazioni di responsabilità previste dall’art. 2236 c.c. allorchè si trovi a valutare l’operato dei sanitari impegnati nella gestione dell’emergenza Covid-19.
La novità della patologia, le poche (spesso confuse e contradditorie) conoscenze scientifiche disponibili e le innegabili carenze organizzative affrontate per fronteggiare la pandemia, inducono a ritenere che ben difficilmente potrà affermarsi la responsabilità del sanitario per non essersi attenuto i criteri imposti dall’art. 5 della Legge Gelli, ovverosia alle raccomandazioni previste dalle linee guida accreditate dalle istituzioni con le modalità disposte nella medesima legge ed alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Infatti, le prime non sono state ancora elaborate secondo i canoni previsti dalla norma, mentre le seconde risultano tuttora in evoluzione e, quindi, prive di quel rigore scientifico su cui generalmente poggiano.
Tutto questo non deve però leggersi come una giustificazione rispetto a condotte gravemente colpose eventualmente tenute da sanitari, i quali in ogni caso (ed ancor più in questo contesto emergenziale) rimangono obbligati a mantenere elevatissimo il livello di attenzione e cura verso il paziente, aumentando le proprie conoscenze con un continuo e costante aggiornamento rispetto alle linee evolutive del trattamento delle conseguenze morbose, sia per fornire la migliore e più adeguata prestazione professionale possibile, che per limitare quanto più possibile i rischi, ancorchè minimi, di venir coinvolti in dispute giudiziali, eventualmente ricorrendo all’espediente del richiamo all’art. 2236 c.c.”