Il rapporto di lavoro cessa unilateralmente quando viene posto in essere dal datore il licenziamento. Esistono diversi tipi di licenziamento:
Si tratta della forma più grave di licenziamento e segue ad un grave inadempimento del lavoratore, purché sia “una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”. Un esempio è il licenziamento che segue all’offesa del datore di lavoro sui social media.
Ai sensi dell’art. 2119 c.c.: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda”.
In tal caso, per giurisprudenza consolidata, elemento costitutivo del licenziamento per giusta causa è l’immediatezza degli effetti del provvedimento espulsivo, in quanto viene meno la fiducia tra datore e lavoratore, sottolineata dalla gravità dei fatti compiuti dal lavoratore e la proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione disciplinare massima.
Il licenziamento per giusta causa, infatti, può essere anche conseguenza diretta dell’insubordinazione, oppure del furto di beni aziendali durante l’esercizio delle proprie mansioni, di diffamazione dell’azienda e dei prodotti della stessa, di minacce nei confronti del datore di lavoro o di colleghi, di danneggiamento di beni aziendali, di falsa malattia e falso infortunio, di violazione del patto di non concorrenza, di uso scorretto dei permessi per ex legge n.104/92.
Nella Legge n. 183/2010, il legislatore ha sancito che, per valutare le motivazioni del licenziamento, il giudice sia vincolato alle tipizzazioni della giusta causa o del giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi o nei contratti individuali certificati.
Per giustificato motivo di tipo soggettivo si intende “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”. Quello per giusta causa rientra nell’alveo dei licenziamenti disciplinari, a cui andrà applicata la procedura ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori, per cui il datore di lavoro dovrà effettuare una precisa contestazione dell’addebito al lavoratore.
In entrambi i casi viene meno il rapporto fiduciario tra i due interessati; l’unica sostanziale differenza sta nel fatto che nell’esaminare l’elemento soggettivo, è utile collegarlo alla giusta causa, al dolo o alla colpa gravissima, in base alla minore o maggiore gravità del comportamento tenuto dal lavoratore. Inoltre, nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, la condotta sarà grave ma non così tanto da interrompere immediatamente il rapporto. In tale ipotesi, il dipendente avrà diritto al periodo di preavviso, ovvero un lasso di tempo tra il giorno della comunicazione del licenziamento e l’ultimo giorno di lavoro.
La disciplina del licenziamento collettivo è contenuta nella legge 223 del 23 luglio 1991 e descrive una procedura a disposizione di imprese con determinati requisiti che debbano procedere ad una contrazione della forza lavoro nei casi previsti dalla normativa vigente.
La legge 223 del 1991 distingue infatti due fattispecie di licenziamento collettivo, rispettivamente normate agli articoli 4 e 24:
Nei casi di accertata illegittimità di licenziamenti per giustificato motivo e per giusta causa, il D.Lgs. n. 23/2015 prevede un indennizzo economico onnicomprensivo commisurato all’anzianità di servizio e non soggetto a contribuzione previdenziale. Il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannerà il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non soggetta a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità.
I termini di impugnazione del licenziamento sono fissati a 60 giorni, calcolati a partire dal giorno in cui la lettera di licenziamento è stata ricevuta dal lavoratore in cui è chiara la volontà inequivoca di impugnare il recesso del contratto di lavoro, il lavoratore dovrà anche depositare l’atto di ricorso presso la cancelleria della sezione lavoro del tribunale ordinario, entro 180 giorni dalla spedizione della lettera di impugnazione. In alternativa, il lavoratore può comunicare all’azienda la richiesta di un tentativo di conciliazione da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
In questa seconda ipotesi, si avranno tre possibilità:
Spetterà al lavoratore che impugna il licenziamento dimostrare quale fatto costitutivo della pretesa, oltre al rapporto di lavoro subordinato, l’esistenza del licenziamento e l’avvenuta estromissione dal luogo di lavoro.
Con l’introduzione del Decreto Legislativo n.23/2015, per il lavoratore è preferibile ottenere il riconoscimento di un’indennità di licenziamento anziché il reintegro. Nel caso di licenziamento illegittimo, discriminatorio o nullo, dunque, il Giudice del Lavoro può disporre il reintegro del lavoratore in azienda e condannare quest’ultima al pagamento di un risarcimento, pari ad un massimo di cinque mensilità a partire dal giorno del licenziamento e sino a quello del reintegro, sottraendo però quanto percepito dal lavoratore in un eventuale altro lavoro (oltre ai contributi dovuti all’INPS).
Se il giudice del lavoro ritiene il licenziamento illegittimo, il lavoratore avrà diritto ad un indennizzo calcolato in base agli anni di servizio svolti presso il datore di lavoro che l’ha licenziato.
Per saperne di più, chiedi agli avvocati specializzati di Consulcesi & Partners
Con la sentenza n. 23332 del 24 agosto 2021, la sezione lavoro della Corte di Cassazione è si è pronunciata sul principio dell’immediatezza della contestazione nel licenziamento per giusta causa.
Per costante giurisprudenza di legittimità, il principio deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti siano molto laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 2010, n. 5546; Cass. civ., sez. lav., 17 maggio 2016, n. 10069; Cass. civ., sez. lav., 22 giugno 2020, n. 12193).
Già dal 1990, la sezione lavoro, con la sentenza n. 412, ha precisato che non è preclusa ai giudici la valutazione di pregressi comportamenti del lavoratore, i quali rappresentino soltanto circostanze meramente confermative – sotto il profilo psicologico e con riguardo alla personalità del lavoratore – della gravità dell’addebito contestato e dell’adeguatezza del provvedimento sanzionatorio. “Le considerazioni anzidette – ha concluso la Suprema Corte – operano anche nel caso in cui i comportamenti disciplinarmente rilevanti siano stati contestati non subito dopo il loro verificarsi ma in ritardo e anche quando la loro contestazione sia avvenuta solo unitamente al fatto ultimo da sanzionare”. (Cass. civ., sez. lav. n. 11410/93 e n. 3835/1981).
Leggi anche: Licenziamento disciplinare illegittimo, il datore di lavoro deve concedere il termine al dipendente per difendersi