Il caso trae origine dalla richiesta di risarcimento promossa dalla madre nei confronti del figlio per i danni ricevuti dal morso del cane. La causa si è necessaria per superare l’eccezione opposta dalla compagnia di assicurazione, in sede stragiudiziale aveva negato la copertura ritenendo tale ipotesi esclusa dalla polizza, trattandosi di danno causato al genitore del proprietario.
Mentre il Tribunale aveva accolto la domanda e di conseguenza la relativa manleva, affermando che l’esclusione valesse soltanto per i genitori conviventi, la Corte di Appello riformava la pronuncia, respingendo la domanda di garanzia sul presupposto che il danno ai genitori fosse sempre e comunque escluso.
Con il ricorso in cassazione l’assicurato contestava la pronuncia d’appello assunta in violazione degli artt. 1362, 1363, 1370 e ss. c.c. Più specificatamente, il ricorrente riteneva che fosse stato disatteso il criterio letterale di interpretazione, essendosi la Corte limitata ad una semplice lettura delle condizioni di polizza senza aver approfondito la ratio sottesa al testo della clausola in questione, dimenticando altresì che, in caso di dubbio, la stessa avrebbe dovuto interpretarsi in senso sfavorevole al predisponente.
La clausola oggetto di contestazione prevedeva l’esclusione di alcuni soggetti dalla garanzia perché non ritenuti terzi: “il coniuge, i genitori, i figli delle persone di cui al punto a), gli altri parenti ed affini con loro conviventi, nonché gli addetti ai servizi domestici”.
La Suprema Corte ha premesso che l’interpretazione per cui i genitori, conviventi o meno con l’assicurato, non dovrebbero mai considerarsi terzi potrebbe essere legittima, ma non sufficiente perché fondata su ragioni puramente letterali. Questa tesi, infatti, si basa sulla collocazione del termine “conviventi” che, posto dopo altri parenti ed affini, sembra riferirsi soltanto a questa categoria di soggetti, e non ai genitori. Sempre da un punto di vista squisitamente testuale, si osserva però che anche la tesi opposta potrebbe essere sostenibile sia perché “non è detto che la collocazione sintattica del termine “conviventi” sia decisiva”, sia perché “la ratio della esclusione che potrebbe ben rinvenirsi nella convivenza, per via del fatto che quest’ultima rende più frequente il rischio di danni, e che questa ratio possa sostenersi lo si ricava dalla esclusione, tra i danneggiati coperti da assicurazione, dei domestici, esclusione che è dovuta non già al loro rapporto di parentela con il danneggiante, ma, per l’appunto, alla convivenza con quest’ultimo”.
Questo empasse interpretativo diviene allora il punto su cui si ancora la decisione finale, fornendo alla Corte l’occasione per ripetere un principio, spesso poco conosciuto al mondo degli assicurati ma di importanza capitale per tutelare le proprie ragioni, per cui “nell’interpretazione del contratto di assicurazione, che va redatto in modo chiaro e comprensibile, il giudice non può attribuire a clausole polisenso uno specifico significato, pur teoricamente non incompatibile con la loro lettera, senza prima ricorrere all’ausilio di tutti gli altri criteri di ermeneutica previsti dagli artt. 1362 c.c. e ss., e, in particolare, a quello dell’interpretazione contro il predisponente, di cui all’art. 1370 c.c.”,
Infatti, poiché la clausola è notoriamente predisposta da un solo contraente (di regola coincidente con l’assicuratore), l’eventuale poca chiarezza deve rimanere a suo carico, tutelando l’affidamento dell’altro rispetto al significato che si poteva legittimamente attendere dalla sua redazione.
Per aversi però una interpretazione contro il predisponente è però necessario che sussista il dubbio interpretativo, ossia che dalla interpretazione della clausola secondo i criteri previsti dalla legge possano discendere almeno due significati possibili, rendendone così il significato non univoco.
Concludendo, allora, per la scarsa chiarezza del testo della clausola prevista dal contratto dovuta al modo con cui l’assicuratore l’aveva predisposta, la Corte ha quindi accolto il ricorso dell’assicurato.