Le ferie retribuite non godute non sono definitivamente perse per il dipendente, senza che costui possa legittimamente pretendere il risarcimento del danno patito ovvero, in taluni casi, addirittura il pagamento dell’indennità pecuniaria sostitutiva.L’art. 36, comma 3, della Costituzione che sancisce questo diritto, definendolo fondamentale e di fatto irrinunciabile, in quanto diretto al recupero delle energie psicofisiche spese per la prestazione lavorativa.
Proprio in considerazione della tutela prevista dal rango costituzionale, il datore di lavoro viene quindi onerato da un vero e proprio obbligo di concedere al lavoratore il periodo di ferie previsto dal contratto, predisponendo altresì tutte quelle tutele organizzative che possano rendere più agevole possibile l’effettivo godimento da parte del lavoratore del previsto periodo di riposo.
Questo criterio interpretativo è stato ripetutamente affermato sia dalla giurisprudenza di Cassazione che del Consiglio di Stato, che hanno per l’appunto riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute per cause a sé non imputabili, e ciò anche quando vi sia una previsione contrattuale che stabilisca il divieto di monetizzazione, dovendo in difetto registrarsi un’ingiustificata ed inammissibile compressione degli interessi del lavoratore.
Di recente, la Corte di Cassazione ha aggiunto che il diritto alle ferie, in quanto irrinunciabile, non è traducibile in moneta durante il rapporto di lavoro, insorgendo il diritto all’indennità sostitutiva solo dal momento della sua cessazione.
In costanza di rapporto, il lavoratore non può quindi fondare un’azione, che sia volta ad ottenere il pagamento della indennità suddetta, sul mancato effettivo godimento delle ferie benché imputabile al datore di lavoro, potendo però invocare il ristoro del pregiudizio che abbia subìto per non essere stato posto in condizione di reintegrare le energie psico-fisiche.
Infatti, il principio della necessaria effettività delle ferie, se da un lato impedisce la monetizzazione in corso di rapporto, dall’altro porta a ravvisare – aggiunge il Supremo Collegio – un colpevole inadempimento nella condotta del datore di lavoro che non assicuri al lavoratore la fruizione del riposo annuale, inadempimento che può essere fonte di danno risarcibile, giacché la disciplina settoriale (id est, la contrattazione collettiva) non esclude la tutela risarcitoria civilistica (Cass. Civ. n. 1016/2017).
Si deve altresì registrare come la giurisprudenza comunitaria, ritornando più volte sul contenuto dell’art. 7 della direttiva 2003/88 (che definisce i criteri generali che presiedono al legittimo godimento delle ferie annuali), ha più volte sostenuto l’assoluta irrilevanza del motivo di cessazione del rapporto di lavoro, così riconoscendo la possibilità, anche per il lavoratore entrato in fase di quiescenza, di ottenere il riconoscimento di un’indennità pecuniaria per le ferie annuali retribuite, di cui non ha potuto usufruire prima del termine del rapporto lavorativo.
Si è giunti da ultimo ad affermare, nelle recentissime pronunce rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (6/11/2018), che il richiamato disposto comunitario debba interpretarsi nel senso che il lavoratore non può perdere il diritto all’indennità per le ferie non godute, neppure nel caso in cui non abbia richiesto di fruirne durante il periodo di servizio, senza che prima venga appurato (e questo rappresenta un monito ai giudici nazionali) se lo stesso lavoratore sia stato effettivamente posto dal suo datore nelle condizioni di poter esercitare il proprio diritto alle ferie annuali retribuite.
Sarà quindi il datore di lavoro, e non certo il lavoratore, ad essere gravato dall’onere di dimostrare, in caso di contenzioso, di aver adottato tutte le misure atte a consentire al lavoratore di esercitare concretamente il suo diritto a cui il lavoratore abbia, nonostante tutto, rinunciato volontariamente e consapevolmente con conseguente perdita della corrispondente indennità finanziaria.
Il lavoratore – afferma la Corte – deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, dovendosi impedire al datore di limitare, ancorchè con condotte meramente dissuasive od omissive, la possibilità di rivendicare il proprio diritto di godere del suo legittimo diritto.
Il datore di lavoro è quindi tenuto ad assicurarsi, in modo concreto e trasparente, che il lavoratore sia effettivamente posto in condizioni di esercitare questo diritto, preoccupandosi – eventualmente con comunicazioni formali ed in ogni caso in modo accurato e tempestivo – che il mancato utilizzo potrebbe comportare la perdita del periodo non goduto.
L’onere della prova viene quindi a spostarsi sulle spalle del datore di lavoro che, non potendo beneficiare degli effetti derivati dall’omessa presentazione della richiesta da parte del lavoratore, dovrà dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza possibile per porre il lavoratore nelle condizioni di fruire del tempo del riposo, per cui vi potrà essere perdita soltanto quando quest’ultimo abbia, deliberatamente e con piena cognizione del possibile pregiudizio arrecatosi, deciso di astenersi dal godimento delle ferie annuali retribuite.
Dello stesso avviso un recente pronunciamento della Corte di Cassazione (Cass. Civ. n. 15652/2018) che, anticipando le indicazioni comunitarie, ha affermato che non sussiste da parte del lavoratore, che invochi la monetizzazione delle ferie non godute, l’obbligo di richiedere preventivamente di poter fruire del periodo di riposo, gravando invece sul datore l’obbligo di dimostrare di aver proposto al lavoratore uno specifico periodo di riposo, che costui avrebbe immotivatamente respinto, rimanendo a suo carico gli effetti pregiudizievoli del mancato raggiungimento della prova.