La Corte Costituzionale è nuovamente intervenuta, dopo il monito lanciato con il suo precedente pronunciamento del 2019, rimasto completamente inascoltato da parte del legislatore, sulla questione dell’evidente disparità di trattamento che, a seguito dell’adozione di una serie di misure urgenti a tutela della stabilità finanziaria, si è venuta a creare fra i dipendenti privati e quelli pubblici sui tempi e sui modi di erogazione dei trattamenti di fine rapporto.
Inequivocabile il dictum della Consulta, laddove è tornata a ripetere con ancora maggiore forza che: “Il differimento della corresponsione dei trattamenti di fine servizio (T.F.S.) spettanti ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione”.
Il trattamento di fine servizio (TFS) rappresenta quella somma a cui tutti i dipendenti pubblici, assunti a tempo indeterminato fino al 31 dicembre 2000, hanno diritto dopo la cessazione dell’attività lavorativa per raggiungimento dell’età pensionabile, per dimissioni o per licenziamento.
L’erogazione del TFS avviene con modalità differite che, a seguito delle varie modifiche legislative, sono da ultimo previste a decorrere dai 24 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre, deve ricordarsi che gli interventi normativi hanno, nel tempo, inciso anche sulle modalità di liquidazione dell’indennità per cui, attualmente, viene erogata in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro, oppure in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro (con primo rateo comunque pari a 50.000,00 euro ed il secondo per il residuo) ed, infine, in tre rate annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro.
In quest’ultimo caso, il primo ed il secondo rateo annuali sono pari a 50.000 euro, mentre il terzo coincide con il residuo dell’indennità complessivamente calcolata.
La questione dell’evidente disparità di trattamento fra dipendenti pubblici e privati è stata spesso sottolineata, tanto da assurgere al vaglio costituzionale quando, già con la sentenza n. 159 del 2019, la Consulta aveva espresso diverse censure rispetto all’attuale quadro normativo, soprattutto riguardo al differimento del trattamento di fine rapporto in caso di pensione raggiunta per limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio.
In quel frangente, pur considerando ammissibile la scelta operata dal legislatore di consentire il pagamento differito e dilazionato dell’indennità ai dipendenti pubblici, che avessero goduto dei benefici del pensionamento anticipato, la Corte aveva, per contro, rimarcato a chiare lettere come non fosse parimenti sostenibile l’analogo trattamento riservato per coloro che fossero cessati dal rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età e di servizio, o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.
Nella motivazione della richiamata pronuncia si aveva modo di leggere che “La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana”.
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Dopo questa motivata critica all’impianto legislativo ancora vigente, nessuna riforma è poi seguita, tanto da doversi registrare un’ulteriore iniziativa, in questo caso proveniente dal Tar Lazio (ordinanza del 17/05/2022), che ha nuovamente sollevato questione di legittimità costituzionale della normativa che, prevedendo pagamenti rateizzati e dilazionati, conduce ad una compressione “irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., non essendo sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere strutturale”.
Pur concludendo con la dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate, ciò che desta attenzione sono, ancora una volta, le considerazioni davvero stringenti ed insuperabili fornite dalla Consulta rispetto a modalità di erogazione del TFS non più accettabili, né tantomeno sostenibili.
Ripercorsa l’evoluzione normativa che ha ricondotto le indennità di fine servizio, previste nel settore pubblico ad una tendenziale assimilazione con le regole previste dall’art. 2120 c.c. per il settore privato, si è voluto sottolineare come questi emolumenti, oltre a sostenere il lavoratore in un momento estremamente delicato della vita, “costituiscono una componente del compenso conquistato attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa”.
Ne discende il riconoscimento della natura retributiva di queste prestazioni, con conseguente applicazione dei principi previsti dall’art. 36 Cost., per cui la garanzia della giusta retribuzione non riguarda unicamente la congruità della somma liquidata, ma comprende anche la tempestività del suo pagamento. Su questo specifico aspetto indugia particolarmente la Consulta, che rinviene nell’erogazione conseguente alla cessazione del rapporto lavorativo proprio quella funzione previdenziale, affiancata a quella retributiva, di ausilio del lavoratore nel far fronte alle difficoltà che possono emergere nell’ultimo tratto della vita.
Pertanto, seppur ammissibile la scelta del legislatore di comprimere questo diritto per fronteggiare situazioni di grave difficoltà finanziaria, non è altrettanto legittimo che un siffatto intervento esorbiti i confini della ragionevolezza e proporzionalità, persistendo senza avere un prefissato limite temporale.
Come ricordato dalla Corte, “la legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso”.
Poste queste solide premesse, la Consulta osserva come il precedente monito al legislatore di sanare questa situazione – definita espressamente di vulnus costituzionale – non abbia ricevuto alcun seguito, rimanendo lettera morta ormai da diversi anni.
Anticipando possibili obiezioni, si è altresì aggiunto che neppure la disciplina dell’anticipazione della prestazione dettata dall’art. 23 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale è possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000 euro, dell’indennità di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l’emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall’art. 4, comma 2, del d.m. 19 agosto 2020 in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici Rendistato) maggiorato dello 0,40 per cento, possa considerarsi adeguata allo scopo.
Stessa considerazione per l’ulteriore misura anticipatoria istituita con la deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219.
Difatti, oltre a non modificare l’impianto normativo oggetto di censura, si tratta di strumenti finanziari a carattere oneroso per l’ex lavoratore richiedente.
Radicale l’affermazione della Consulta che, in modo chiaro e senza alcun indugio, pone all’indice l’immobilismo del legislatore affermando che: “non ha, infatti, espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996)”.
Pur riconoscendo di non potervi porre rimedio, trattandosi di scelte discrezionali del legislatore, la Corte ha però aggiunto che questa discrezionalità attiene alla scelta dei mezzi e delle modalità, ma non ai tempi in cui svolgerla, laddove si esorbitino i limiti della ragionevolezza.
In analoghe situazioni – ricorda infatti la Corte – “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia”, per cui l’ingiustificabile ulteriore compromissione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento del pagamento di queste prestazioni porta ad esigere, in modo non più procrastinabile, quello che viene definito “un intervento riformatore prioritario”.