Di fronte ad una richiesta di risarcimento danni da malpratice medica, troppo spesso viene ancora opposto da sanitari poco accorti alle evoluzioni giurisprudenziali più recenti, che si è trattato di un evento malaugurato scaturito da una possibile complicanza: quasi a ritenere che, solo per questo, andrebbero esenti da qualsiasi censura di responsabilità.
Vedremo come, contrariamente a questo improvvido convincimento, la giurisprudenza di legittimità abbia tracciato un perimetro tutt’altro che banale, che dovrebbe suggerire all’operatore sanitario di non accogliere soluzioni eccessivamente semplicistiche, dovendo occuparsi accuratamente di fornire le prove di quanto posto a suo carico dai principi regolatori della materia.
Con il termine “complicanza” la medicina clinica intende solitamente quell’evento dannoso che può insorgere durante il percorso terapeutico applicato sul paziente e che, pur essendo astrattamente prevedibile come possibile conseguenza, non sarebbe altrimenti evitabile dall’operatore sanitario.
Fin da 2015 e, più segnatamente con la sentenza n. 13328/2015, la Corte di Cassazione ha voluto delineare i tratti distintivi del concetto di complicanza illustrando, con scrupolosa chiarezza, tutta la sua sostanziale inutilità nei giudizi di responsabilità medica non potendo, solo per questo, esonerare il sanitario dal giudizio di responsabilità per il verificarsi dell’evento avverso.
Nel caso in questione il medico, già condannato in appello per l’errore commesso durante l’esecuzione di un intervento agli occhi, aveva impugnato la pronuncia in Cassazione assumendo l’erronea individuazione – anche ai sensi dell’art. 1176 c.c. – della sua colpa professionale, sebbene la stessa fosse stata esclusa dai consulenti tecnici d’ufficio nella relazione peritale depositata in atti.
Nel respingere il motivo di censura, il Supremo Collegio si è particolarmente soffermato sull’aspetto della complicanza, indicato dal ricorrente come causa di esclusione della sua responsabilità. Nel far ciò, ha quindi affermato che al medico convenuto in un giudizio di malpratice medica non è sufficiente per superare la presunzione posta a suo carico dall’articolo 1218 c.c., “dimostrare che l’evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate “complicanze”, rilevate dalla statistica sanitaria”. Ricordata la nozione di complicanza secondo la clinica medica e la medicina legale, la Corte ha voluto chiaramente evitare ogni illusione interpretativa, scrivendo nero su bianco che “tale concetto è inutile nel campo giuridico”.
Infatti – si legge nella conseguente parte motiva – quando si verifichi, durante l’intervento o successivamente alla sua conclusione, un peggioramento delle condizioni cliniche del paziente, due sono le alternative possibili nel diritto: “o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le “complicanze”; ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile”.
Soltanto in quest’ultimo caso, l’evento dannoso “integra gli estremi della causa non imputabile di cui all’articolo 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le complicanze”. Ancor più chiaramente, la Corte ha dunque aggiunto che, nel campo del diritto, non riveste alcun valore giuridico sostenere che l’evento dannoso non sarebbe voluto dal medico perché rientrante nella classificazione clinica delle cd. “complicanze”.
Ciò che interessa al magistrato è soltanto appurare, in concreto e non in astratto, se “quell’evento integri gli estremi della causa non imputabile”. Questo significa – aggiunge la Corte – che il fatto che “un evento indesiderato sia qualificato dalla clinica come ‘complicanza’ non basta a farne di per sé una “causa non imputabile” ai sensi dell’articolo 1218 c.c.; così come, all’opposto, eventi non qualificabili come complicanze possono teoricamente costituire casi fortuiti che escludono la colpa del medico”.
Le ricadute di questo principio sull’onere probatorio sono di assoluto rilievo in quanto: “o il medico riesce a dimostrare di avere tenuto una condotta conforme alle leges artis, ed allora egli va esente da responsabilità a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri o meno nella categoria delle ‘complicanze’, ovvero, all’opposto, il medico quella prova non riesce a fornirla: ed allora non gli gioverà la circostanza che l’evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacché quel che rileva è se era prevedibile ed evitabile nel caso concreto”.
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La Corte di Cassazione è poi tornata ad occuparsi del concetto di complicanza, valutando se, in questi casi, possa o meno applicarsi la limitazione di responsabilità del professionista prevista dall’art. 2236 c.c.
Nella motivazione contenuta nell’ordinanza n. 25876/2020, è stato osservato che il cd. “problema tecnico di speciale difficoltà di cui all’articolo 2236 c.c., in base al quale la responsabilità del professionista è limitata alle sole ipotesi di dolo o colpa grave, ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza”.
Calando questa affermazione nel settore medico e, più segnatamente, nell’ambito della cd. “complicanza”, la Corte ha quindi affermato che: “essa non è identificabile con la mera complicanza, la quale ben può ricorrere in intervento di natura routinaria, salvo la prova da parte del sanitario della presenza del problema tecnico di speciale difficoltà”. La mera difficoltà del quadro sintomatologico non può dunque ritenersi di per sé capace, in assenza di altre circostanze, di assurgere “allo stadio del problema tecnico di speciale difficoltà”, poiché la complicanza può insorgere anche in un intervento rutinario, dovendo soltanto richiamare il sanitario all’uso di una maggiore accortezza.
In un successivo pronunciamento del 2021 (ord. n. 12596), la stessa Cassazione, confermando la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria resa in sede di appello, ha quindi dato seguito alle indicazioni contenute nel precedente del 2015, ribadendo che, laddove si verifichi un peggioramento della condizioni cliniche del paziente, occorre distinguere fra le due possibili ipotesi: “o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le complicanze; ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile, e in tal caso esso integra gli estremi della “causa non imputabile” di cui all’art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le complicanze”.