La definizione di questa categoria di danno deriva, in via residuale e comunque dottrinaria, da quella di mobbing: si tratta in buona sostanza di una forma più lieve della condotta mobbizzante.
In estrema sintesi, per aversi un potenziale caso di “mobbing”, è necessario il ricorso contemporaneo dei seguenti presupposti:
Spesso, in sede di giudizio, la domanda di risarcimento per mobbing ha però trovato scarso accoglimento, soprattutto per la difficoltà di dimostrare il collegamento funzionale fra le condotte mobbizzanti che, reiterate nel tempo, svelano l’intento persecutorio del soggetto mobbizzante.
Proprio per ovviare a questa difficolta probatoria, e soprattutto per non lasciare impuniti quei comportamenti che, pur non avendo i connotati tipici del mobbing, mostravano comunque evidenti profili di illeceità, la giurisprudenza ha enucleato la figura dello “straining”, così da offrire una maggiore tutela a favore del lavoratore danneggiato.
Questa situazione si verifica ogni qual volta si possano individuare condotte vessatorie, imputabili a superiori gerarchici, colleghi ovvero direttamente al datore di lavoro, che seppur caratterizzate dall’assenza di continuità provocano comunque un pregiudizio permanente al lavoratore, con conseguente riflesso sulla sua situazione psicofisica e morale.
Ad esempio, in alcune pronunce di merito, si è configurato danno da “straining” nei casi di demansionamento, di trasferimento in condizioni disagiate, di persistenti atteggiamenti di superiorità, fino a sanzionare ingiustificabili atti di disprezzo o di scherno.
In altri casi, si è osservato che assumono dignità risarcitoria le iniziative ostili o discriminatorie compiute sporadicamente e senza continuità da colleghi che, così facendo, recano danno al lavoratore, magari con offese verbali od altre condotte discriminatorie non impedite dalla parte datoriale.
Ancora di recente, la Corte di Cassazione ha voluto delineare (ord. n. 16580/22) alcune potenziali situazioni di danno rinvenibili sul posto di lavoro affermando che:
Perché possa configurarsi lo straining è pertanto sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti (ovviamente negativi) siano duraturi nel tempo.
Ne consegue allora che, pure in assenza dell’elemento della reiterazione temporale e dell’unicità dello scopo persecutorio, queste condotte sono civilmente sanzionate ai sensi dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro – non soltanto di non assumere condotte vessatorie nei confronti del lavoratore (cd. “azioni stressogene”) – ma anche di garantire che lo stesso svolga la sua prestazione in condizioni di sicurezza e salubrità ambientale, dovendo così adottare tutte quelle tutele che si rendano necessarie per mantenere integra sia la capacità psico-fisica che la sua personalità morale.
Qualora ciò non avvenga, il datore di lavoro sarà quindi tenuto al risarcimento di tutti quei danni che, legati dal vincolo di causalità al comportamento tenuto, sono stati concretamente patiti dal lavoratore.
Pertanto, anche quando non sia rinvenibile l’intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da portesi configurare una condotta di “mobbing”, il Giudice rimane pur sempre tenuto a valutare se, dagli elementi emersi dal processo, possa configurarsi l’esistenza del minor danno derivante da azioni ostili che, seppur limitate nel tempo, sono state tali da provocare nel lavoratore una modificazione in negativo – costante e permanente- della situazione lavorativa, idonea a pregiudicare il diritto alla salute.
Generalmente, i danni possono variare dalle conseguenze di natura psico-fisica (ad es. una patologia insorta a causa della vessazione subita) che di natura puramente morale, ma non è preclusa la possibilità di ottenere il ristoro del danno patrimoniale, sempre che sia dimostrata la riconducibilità causale all’evento lesivo occorso al dipendente.
La prova del danno non patrimoniale dovrà essere sostenuta, per quanto concerne l’aspetto psico-fisico, da un’adeguata e puntuale relazione medico legale, che ponga in risalto sia la natura ed entità delle patologie insorte che il collegamento causale fra queste e la condotta lesiva.
Può altresì avvenire che, a seguito dell’atteggiamento vessatorio, il lavoratore patisca un danno di natura professionale per cui, ad esempio a causa del demansionamento, perda la possibilità di progredire nell’apprendimento e miglioramento delle sue competenze, con conseguente facoltà per il giudice di liquidare il danno con un importo calcolato in via equitativa.
Per quanto concerne la prova, sarà quindi opportuno dotarsi, da un punto di vista strettamente documentale, delle diffide inviate all’amministrazione, con cui si sono segnalate le condotte improprie tenute dal datore o dai colleghi ovvero situazioni idonee a rendere insicuro l’ambiente lavorativo, degli ordini di servizio incongrui ricevuti o delle mail con carattere offensivo recapitate, ovvero di qualsiasi altro riscontro documentale che possa descrivere la condotta stressogena.
Inoltre, potranno essere utilizzate, se disponibili, eventuali testimonianze rese da altri colleghi, ovvero da terzi soggetti che dovessero aver assistito a situazioni del genere e siano in grado di riferirle ad un magistrato. Il lavoratore dovrà poi dimostrare, mediante la produzione del proprio contratto lavorativo (comprensivo di tutte le integrazioni apportate nel tempo), le mansioni previste e quelle effettivamente svolte.
Per quanto concerne la documentazione medica, di assoluto rilievo sono le certificazioni sanitarie da cui evincere l’incipit dei disturbi, oltre ai referti degli esami clinici effettuati, nonché la relativa perizia medica, redatta da uno specialista (psichiatra, psicologo od altro), con indicazione dell’incidenza della patologia sulla capacità psico-fisica del lavoratore (cd. “danno biologico”).
La domanda giudiziale si propone con ricorso davanti alla Sezione Lavoro del Tribunale Civile del luogo in cui ha sede l’azienda dove lavora il dipendente, chiedendo l’accertamento dell’illegittimità della condotta denunciata, con conseguente inibizione dalla stessa e ripristino della situazione “quo ante”, con richiesta risarcimento dei danni patrimoniali e non eventualmente patiti.
È necessario produrre, fin da subito, tutta la documentazione disponibile a riprova delle condotte illecite compiute a proprio danno, indicando anche i nominativi dei testimoni disponibili, nonché le certificazioni sanitarie e la relazione medico legale a sostegno del pregiudizio psico-fisico scaturito. Considerando la natura risarcitoria dell’azione, alla stessa di applicherà il termine prescrizionale di 10 anni.