Molto spesso pervengono richieste di consulenza da parte di personale sanitario, ancora in servizio o magari entrato in pensione, che si vede recapitare, da parte di soggetti appartenenti all’apparato pubblico (Regioni, Inps, ASL ecc..), diffide di rimborso immediato di somme ricevute, a titolo di retribuzione o previdenza, molti anni prima e di cui spesso non ricordano nulla, neppure di averle mai percepite.
La motivazione sottesa a queste richieste di restituzione risiede in presunti errori che l’amministrazione pubblica riferisce di aver commesso nel riconoscimento di questi benefici per cui, a seguito delle verifiche contabili successivamente intervenute, sarebbe emersa l’assenza del presupposto giustificativo dell’intero pagamento eseguito, ovvero della maggiorazione riconosciuta rispetto al dovuto, con conseguente necessità di procedere al recupero di quanto indebitamente erogato.
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Dunque, alcuni soggetti che avevano percepito somme e benefici a vario titolo dalla pubblica amministrazione (indennità di disoccupazione, retribuzione di posizione e permessi ex lege 104/92) avevano impugnato le richieste di restituzione formulate nei loro confronti dai diversi enti pubblici interessati ritenendo, fra le altre motivazioni addotte, che le pretese restitutorie fossero da ritenersi infondate avendo i percipienti confidato, in buona fede, nella legittimità dei benefici riconosciuti dalla PA.
I giudici avevano quindi sollevato una questione di legittimità costituzionale affermando che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ove si accerti che l’amministrazione abbia versato retribuzioni sine titulo, sarebbe ammessa la ripetizione dell’indebito in applicazione della disciplina generale di cui all’art. 2033 cod. civ. non rilevando, per contro, neppure l’ipotesi di buona fede di chi li ha ricevuti, che influirebbe soltanto sulla restituzione dei frutti e degli interessi.
Questo orientamento, secondo le argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, verrebbe però a contrastare l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU, e dunque violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. dal momento che tale previsione fornisce adeguata tutela al legittimo affidamento nella spettanza di erogazioni effettuate, in materia lavoristica e previdenziale, da soggetti pubblici a favore di persone fisiche, le quali potrebbero, se in buona fede, legittimamente opporsi alle istanze di restituzione, trattenendo a sé le somme ricevute.
Inoltre, veniva osservato che, dall’esame dei fatti insorti in giudizio, erano emersi diversi aspetti che giustificavano il legittimo affidamento:
Con la recente pronuncia n. 8 del 27/01/2023, la Corte Costituzionale ha fugato ogni dubbio circa la compatibilità costituzionale dell’art. 2033 c.c. con l’art. 117 Cost., per mezzo della norma interposta dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU, nella interpretazione datale dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza 11 febbraio 2021, Casarin contro Italia).
I giudici costituzionali hanno innanzitutto precisato come la giurisprudenza della CEDU non abbia introdotto un principio generale di irripetibilità della prestazione in presenza di un legittimo affidamento di colui che ha ricevuto le somme, in quanto ciò che rileva è essenzialmente la presenza di “interferenze sproporzionate” rispetto all’affidamento legittimo ingenerato dall’erogazione indebita da parte di soggetti pubblici di prestazioni di natura previdenziale o retributiva.
Ciò posto, hanno poi ribadito come l’ordinamento interno già conosca specifiche ipotesi di irripetibilità totale delle prestazioni sia di natura retributiva (art. 2126 c.c.) che previdenziale e assicurativa (salvo il dolo del percipiente: artt. 52 e 55, l. n. 88/1989), oltre a riconoscere l’esistenza di un principio di settore, nell’ambito delle prestazioni assistenziali, in virtù del quale “la regolamentazione della ripetizione dell’indebito è tendenzialmente sottratta a quella generale del codice civile” (Cass. n. 13223/2020).
Al di fuori delle suddette specifiche ipotesi, però, il legittimo affidamento rimane – secondo la Corte – privo di adeguata protezione, trovando applicazione il modello generale di tutela dell’affidamento (art. 1337 c.c.) nell’ambito del canone generale della buona fede oggettiva (art. 1175 c.c.).
La Corte Costituzionale, quindi, ha chiarito che le circostanze prese in considerazione dalla CEDU al fine di riconoscere la sussistenza di un legittimo affidamento, tale da escludere la ripetibilità della prestazione indebita (es., relazione tra i soggetti, le circostanze concrete dell’attribuzione, ecc.), già trovano una corrispondente tutela a livello interno, dal momento che “l’interesse protetto dalla CEDU, come ricostruito dalla Corte EDU, può trovare riconoscimento, nel nostro ordinamento, dentro la cornice generale della buona fede oggettiva”.
I conseguenti rimedi previsti a tutela dell’affidamento rientrano principalmente nella categoria dell’inesigibilità della prestazione, sia temporanea che parziale, fermo restando però che l’inesigibilità non rappresenta una causa (atipica) di estinzione dell’obbligazione restitutoria.
In particolare, essa può comportare la necessità di “rateizzare la somma richiesta in restituzione, tenendo conto delle condizioni economico-patrimoniali in cui versa l’obbligato”, con la conseguenza che la prestazione rimarrà inesigibile fintantoché non sia richiesta con modalità che il giudice reputi conformi a buona fede oggettiva.
Inoltre, in presenza di particolari condizioni personali del percipiente e dell’eventuale coinvolgimento di diritti inviolabili (in relazione ad esigenze primarie di vita), la buona fede oggettiva può condurre, a seconda della gravità delle ipotesi, a ravvisare una inesigibilità temporanea o finanche parziale della prestazione ricevuta.
In definitiva, la sentenza in commento valorizza la clausola generale di buona fede oggettiva (artt. 1175 e 1337 c.c.), espressione del generale principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), quale strumento idoneo a condizionare l’esecuzione dell’obbligazione restitutoria (art. 2033 c.c.), imponendo di tenere in debita considerazione i contrapposti interessi delle parti in relazione alle specifiche circostanze del caso, anche al fine di evitare possibili abusi del diritto.
Deve escludersi, quindi, che la tutela apprestata a livello interno sia inferiore a quella prevista a livello sovranazionale, con conseguente esclusione di ogni profilo di incompatibilità dell’art. 2033 c.c. con la convenzione europea.
Pertanto, in conclusione, sarà possibile tutelare il legittimo affidamento di colui che, in buona fede, abbia ritenuto correttamente erogate le somme ricevute, consentendo la rateizzazione della prestazione restitutoria ovvero, in caso di situazioni particolari legate alle condizioni personali del soggetto, giustificare l’inesigibilità parziale o temporanea delle somme oggetto di ripetizione.
Qualora si riceva una richiesta di rimborso da parte della PA rispetto a somme eventualmente percepite, è consigliabile rivolgersi immediatamente ad un legale esperto in diritto del lavoro e previdenziale per verificare, eventualmente con la presentazione di formale istanza di accesso agli atti, i motivi della pretesa amministrativa, per poi procedere, con altrettanta tempestività, al deposito del ricorso giudiziario (al Tribunale amministrativo od a quello del Lavoro) evidenziando, oltre all’eventuale scadenza del termine di prescrizione, i profili di irregolarità commessi dalla P.A., nonché illustrando compiutamente i motivi di buona fede che giustificano il legittimo affidamento di colui che ha percepito le somme.