Secondo la definizione più comune, per “contratto a tempo determinato” si intende il contratto che cristallizza un rapporto lavorativo, il quale prevede un termine finale, una durata prestabilita.
La durata massima di questo tipo di contratto è di 12 mesi, estesi fino a 24 nel caso di:
Se non sussistono queste esigenze, a far data dal tredicesimo mese, questo si trasforma in contratto a tempo indeterminato. Nel caso in cui venga esteso in maniera legittima fino a 24 mesi, questo non può essere considerato a tempo determinato oltre questo termine per diverse disposizioni dei contratti collettivi.
Inoltre, è sempre consentita l’assunzione a termine dei dirigenti, purché la durata del contratto non sia superiore a 5 anni. Il termine finale del contratto può essere prorogato per un massimo di quattro volte, quando il contratto iniziale ha una durata inferiore a 24 mesi e con il consenso del lavoratore, altrimenti si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga, eccezion fatta per le start up innovative fino a 4 anni dalla loro costituzione in società.
Se il lavoratore viene riassunto con contratto a termine entro 10 o 20 giorni dalla scadenza, a seconda che il primo contratto fosse di durata rispettivamente inferiore o superiore a 6 mesi, il secondo contratto viene considerato a tempo indeterminato. La normativa di riferimento è il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, artt. 19 – 29.
La disciplina del contratto a termine nella Pubblica Amministrazione è il risultato del combinato disposto dell’impianto normativo dettato per il settore privatistico e le specialità riservate al solo settore dell’impiego pubblico. Questo si traduce nella normativa prevista dagli artt. 19 e ss. – del DLgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), e l’art. 36 del DLgs. 165/2001 (c.d. “Testo Unico del Pubblico Impiego”).
In particolare, si prevede che le Pubbliche Amministrazioni possano ricorrere ai contratti di lavoro a tempo determinato soltanto se sussistono tre differenti condizioni:
L’art. 36 co. 5 del DLgs. 165/2001 prevede che “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative” e di tale danno può essere chiamato a rispondere il dirigente nei confronti dell’amministrazione qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave.
In caso di violazione della disciplina sulla successione dei contratti a termine, per il dipendente residua solo il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro lesiva di norme imperative: questa la sostanziale differenza con il lavoratore del settore privato, in quanto
dall’illegittima reiterazione di contratti a termine può scaturire sia l’indennità forfettaria che l’assunzione con contratto a tempo indeterminato.
Inoltre, grazie alla direttiva 1999/70/CE (applicabile anche al settore pubblico), sono stati sanciti due principi fondamentali:
Sul tema, la Corte di Giustizia europea ha più volte affermato che l’art. 36 del DLgs. 165/2001 è compatibile con la direttiva a riguardo e ha ribadito tali conclusioni nel 2013 (CGUE del 12.12.2013 n. 50/13, “sent. Papalia”), precisando che la conseguenza risarcitoria è misura conforme al diritto europeo a condizione che la prova da addurre per ottenere il ristoro non renda impossibile o eccessivamente difficile la tutela del lavoratore.
Non solo l’Europa, ma anche la Corte di Cassazione ha avvalorato questa istanza e, con sentenza n. 1260 del 2015, ha sottolineato che l’art. 36 co. 5 del DLgs. 165/2001 “configura la tutela patrimoniale non solo come una forma di refusione dei danni effettivamente subiti dal lavoratore, ma anche come una vera e propria sanzione a carico della P.A. per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti del dipendente”.
Tale danno, definito dai giudici come “comunitario”, è generalmente volto a garantire al lavoratore un risarcimento conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di più contratti a termine da parte della Pubblica Amministrazione (cfr. Cass. 31.12.2014 n. 27481). Perciò, l’unico onere a carico del lavoratore è quello di provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine, essendo esonerato dalla prova di un danno effettivamente subìto.
Per quanto riguarda la determinazione del risarcimento del danno subito dal dipendente pubblico nel caso di un illegittimo reiterarsi di contratti a termine, secondo le SS.UU., la norma da utilizzare è l’art. 32 comma 5 della legge n. 183/2010 che sanziona la illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato.
Quando la Pubblica Amministrazione procede all’impiego di un lavoratore con reiterati contratti a termine stipulati in violazione di legge, questi, ai sensi dell’art. 36 co. 5 del DLgs. 165/2001, avrà diritto al risarcimento del danno patrimoniale. Il danno risarcibile è costituito, pertanto, dalla concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione, accompagnata dalla possibilità di ottenere un risarcimento integrale del danno, dimostrando – mediante presunzioni – la perdita di opportunità di trovare un impiego, il cosiddetto danno da perdita di chance.
Resta ferma la possibilità di dimostrare ulteriori danni subiti con onere della prova a carico del lavoratore. Alle relative e numerose pronunce a riguardo ne sono poi seguite molte altre, da ultimo Cass. Civ. Sez. Lav. n. n. 7060/18 e Cass. Civ. Sez. Lav. n. 7440/18, con cui si conferma che la reiterazione di contratti a tempo determinato, ancorchè in modo non continuativo, si pone comunque in violazione della normativa comunitaria, con conseguente diritto per il lavoratore ad ottenere il ristoro del danno presunto, salva la possibilità di dimostrare un maggior pregiudizio patito.
Può, ad esempio, configurarsi nel caso di dirigenti medici sanitari che hanno avuto più contratti di lavoro con la P.A. a tempo determinato, con o senza soluzione di continuità, per un periodo superiore ai 36 mesi.
Si può agire, quindi, tramite ricorso sia individuale (seriale), qualora il medico agisca per la condotta illegittima tenuta dall’Azienda Sanitaria responsabile; sia collettivo, qualora più medici, appartenenti alla stessa Azienda Sanitaria, intendano agire congiuntamente contro la stessa struttura responsabile.
ll diritto fatto valere in giudizio è soggetto alla prescrizione decennale, venendo in rilievo somme in ipotesi spettanti a titolo di risarcimento del danno conseguente a responsabilità contrattuale dell’Amministrazione.