E’ giunto fino in Cassazione il caso di un soggetto che, pubblicando sul proprio stato di Whatsapp affermazioni lesive della reputazione di un terzo, veniva ritenuto dai giudici di merito responsabile del reato di diffamazione ex art. 595 c.p.
Il delitto di diffamazione
Il delitto di diffamazione è punito dal primo comma dall’art. 595 del codice penale nei termini che seguono: <<Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire diecimila>>.
Il medesimo articolo prevede, nel suo terzo comma, un’ipotesi di diffamazione aggravata che ricorre qualora l’offesa sia recata <<col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico>>. In tal caso <<la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire cinquemila>>.
Tale previsione rinviene la sua ratio <<nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorchè non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa>> (Cass. pen., Sez. I, n. 24431 del 2015).
Affermazioni lesive e diffusione delle stesse
Nel caso di specie il ricorrente ha lamentato, nei due distinti motivi di ricorso presentati alla Corte, che durante l’istruttoria non si fosse raggiunta la prova piena del fatto che i messaggi fossero rivolti alla persona offesa e che, in ogni caso, questi contenuti fossero realmente visionabili da tutti i contatti della rubrica dell’imputato.
Entrambe le censure sono state respinte: la prima ritenendo che l’istruttoria avesse consegnato la dimostrazione, ogni ragionevole dubbio, che le affermazioni lesive erano dirette proprio al soggetto leso, mentre con riferimento alla seconda, fondata sulla possibilità dell’applicazione utilizzata dall’imputato di escludere la visione dello “stato” a tutti o ad alcuni dei contatti presenti, è stata dichiarata inammissibile per novità atteso che – come afferma la pronuncia – “il motivo di appello, lamentando l’assenza di prova della diffusività in ragione della mancata dimostrazione che i contatti della rubrica disponessero dell’applicazione (e, in conseguenza, potessero visionare lo stato dell’imputato), muoveva dal contrario presupposto in fatto, ossia che l’imputato non avesse limitato la visione: ciò che, peraltro, è del tutto razionale, dal momento che, se tale fosse stata l’intenzione dell’offensore, sarebbe stato sufficiente mandare un messaggio individuale”.